La pandemia ha fatto sì che tutti vivessimo le celebrazioni religiose attraverso i nuovi media, ma “questa non è la Chiesa”. Questa è “la Chiesa di una situazione difficile”, che “il Signore permette”, ma “l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti”. Questo rischio di vivere la comunione ecclesiale solo in modo virtuale è stato sottolineato da Papa Francesco nell’omelia della Messa a Santa Marta dello scorso 17 aprile. Mentre in molti Paesi si avvia una nuova fase e si riparla della possibilità di celebrazioni eucaristiche pubbliche, resta l’interrogativo su quanto ci abbia insegnato questa parentesi che con il “lock down” ha rilanciato la pastorale digitale e soprattutto la cosiddetta “Chiesa domestica”. Abbiamo girato la domanda ad Assunta Steccanella, docente di teologia pastorale presso la Facoltà teologica del Triveneto e catechista degli adulti.
Ascolta l’intervista ad Assunta Steccanella
«Questa sottolineatura del Papa arriva dopo un periodo nel quale il nostro approccio alla celebrazione dei sacramenti e alla preghiera è stato trasformato dalle urgenze del reale. È vero che questa situazione non è l’ideale perché la Chiesa è una comunità di persone che si ritrovano, si incontrano. Deve essere vissuta nella consapevolezza che è provvisoria e causata dalle circostanze impensabili nelle quali ci siamo trovati che ci hanno costretto a improvvisare, facendo del nostro meglio. Solo che adesso è il momento di cominciare a riflettere su questa situazione e a farlo seriamente».
L’approccio virtuale non può essere sufficiente a mantenere la vita ecclesiale. Soprattutto l’evento liturgico sacramentario non è totalmente riproducibile..
«Questo è assolutamente vero. C’è una cosa che noi non conosciamo abbastanza e che sta prendendo corpo in quello che sta accadendo. Noi consideriamo i nuovi mezzi di comunicazione semplicemente come degli strumenti d’uso mentre strutturano in realtà una specie di nuovo luogo intermedio che si colloca tra la realtà vera e il puro artefatto, la pura rappresentazione. In quanto luogo intermedio i nuovi media non sono la realtà, anche se la riproducono molto bene. Così come non sono una pura falsità. Questo spazio è assolutamente nuovo e inedito: non c’era al tempo di Gesù e non c’era, con questa forza, neanche al tempo del Concilio. Ci si è presentato in tutta la sua forza e la sua potenza e dobbiamo imparare ad abitarlo, ma non potrà mai essere sostitutivo dello spazio reale e della presenza reale che i sacramenti attuano».
Pensa che sia un modo di vivere la pastorale che debba essere integrato nella pastorale reale, quella fatta delle azioni umane vere?
«Credo di sì, ma penso che anche questo vada fatto in modo nuovo. Il Concilio ci ha suggerito la necessità di ascoltare i segni dei tempi e questa bella immagine mi è molto cara perché i segni dei tempi sono spazi nei quali è possibile annunciare il Vangelo. Questo tempo che ci si sta dispiegando di fronte ci apre spazi nuovi, come lo spazio virtuale, che non si chiuderanno. Non dobbiamo pensare che passata questa emergenza la nostra pastorale tornerà semplicemente ad essere la pastorale di prima. Intanto questa fase sarà lunga. Poi sappiamo che avremo bisogno di tempi intermedi per sostenere la preghiera in varie forme. Però proprio per il fatto che i new media sono una realtà nuova sarà necessario pensare a delle modalità che consentano di non viverla come una realtà esclusivamente individualistica e chiusa in se stessa, come ha detto Papa Francesco. Altrimenti si rischia una forma di “gnosi”, per la quale io partecipo alla mia celebrazione, la vivo in me stesso senza una vera relazione con gli altri. Dovremmo attivare tutte le potenzialità di dialogo e di scambio insite in questi media. Faccio un esempio: le “‘conference call” che sono diventate così frequenti, le riunioni che organizziamo sulle varie piattaforme digitali, sono un’espressione dei nuovi mezzi di comunicazione che consente una comunicazione a due direzioni. Questo è già un passaggio ulteriore rispetto al semplice assistere a una Messa proposta attraverso la televisione, a volte anche in differita, che è condizione ancora più vicina all’artefatto. Ci sono cioè una serie di coordinate che vanno considerate seriamente dal punto di vista tecnologico, sociologico e filosofico. Dobbiamo mettere in atto tutte le nostre potenzialità per pensare alle modalità con le quali i nuovi media potranno essere presenti nella pastorale del futuro senza pretendere che sostituiscano la preghiera e la vita di relazioni con la comunità».
Questo tempo di privazione delle celebrazioni eucaristiche pubbliche può essere anche un’opportunità per riscoprire il sacerdozio battesimale, dunque la spiritualità laicale da parte del popolo di Dio?
«Penso di sì perché come pastoralista mi sembra che le nostre azioni pastorali, nonostante tanti tentativi in direzioni diverse, sono rimaste per troppo tempo ripiegate sulla figura del presbitero al quale venivano affidati tutti i compiti legati alla spiritualità e al quale si faceva continuamente riferimento. Oggi per l’impossibilità di incontro con il proprio parroco o con il presbitero che ci segue spiritualmente, per l’impossibilità di partecipare anche all’Eucarestia domenicale sono riemerse tutte quelle capacità, quei doni che abbiamo come cristiani e che ci consentono di esercitare il nostro sacerdozio battesimale».
A cosa si riferisce?
«La capacità di celebrare, tra virgolette, in famiglia e nella propria casa dei momenti di preghiera che possano farci sentire in comunione con i fratelli pur non essendo fisicamente insieme. Questo aspetto diventa ancora più forte se si riesce, con delle semplici strategie, ad agganciarlo alla celebrazione, magari proposta attraverso i new media. Penso a un presbitero che durante la celebrazione eucaristica dà il mandato ai genitori di benedire la propria famiglia o di benedire il pane che mangeranno a tavola. In questo modo in famiglia ci sarà un riflesso, un ritorno, di quell’azione comunitaria per sentirsi comunque in comunione con qualcuno di reale che celebra per te. Sono forme ed espressioni che si stanno manifestando in vari modi e che andranno valorizzate proprio perché abbiamo cercato per tanto tempo di dire il valore della preghiera familiare e adesso abbiamo la possibilità di dirlo sperimentandolo».
Dietro l’angolo c’è sempre il rischio del predominio della sacramentalizzazione su altre forme di evangelizzazione come ha scritto Papa Francesco nella Evangelii Gaudium…
«Abbiamo un po’ ridotto tutto alla celebrazione dei sacramenti. Ridotto è una brutta parola connessa ai sacramenti, però si può anche ridurre una realtà bellissima come quella dell’Eucarestia. Se diamo uno sguardo a come è la pastorale delle nostre comunità vediamo che gira tutta intorno alla celebrazione eucaristica e alla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana che assorbono la stragrande maggioranza delle energie. Tutto ciò con attenzioni molto più deboli dal punto di vista quantitativo al servizio alla Parola, al servizio alla formazione, anche in alcuni casi al servizio alla carità, mentre sappiamo, come ci ricorda il Papa, che i poveri sono teologicamente il ‘volto di Cristo’ e ci sono molti posti dove possiamo scoprirne la presenza reale. Particolarmente adesso in cui le situazioni di povertà e di precarietà economica si sono moltiplicate. Per cui essere avvertiti rispetto alla negatività di una esclusiva attenzione alla celebrazione dei sacramenti, per dischiudere lo sguardo sull’ampiezza e la bellezza dell’essere cristiani, potrebbe essere una lezione preziosa di questo tempo».